La filosofía de por sí puede cambiarnos la vida. Todos somos filósofos, solo tenemos que ejercer lo que somos. Cuando relaciono los términos "filosofía" y "terapia" no es tanto porque crea que exista una terapia filosófica como una alternativa a otros tipos de terapia, sino porque pienso que la filosofía en sí misma es terapéutica.
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jueves, 31 de octubre de 2013
Curso UNED La Filosofía como Terapia
El plazo de inscripción para este curso (que comienza el 1 de diciembre de 2013 y termina el 31 de mayo de 2014), finaliza el próximo 13 de noviembre. La matrícula se puede realizar on-line en el siguiente enlace:
http://formacionpermanente.uned.es/tp_actividad/idactividad/6393
http://formacionpermanente.uned.es/tp_actividad/idactividad/6393
domingo, 27 de octubre de 2013
Epicuro. Lettera sulla felicità.
Lettera sulla felicità - Epicuro
(Compartido desde Phi Filosofia Dibattito )
Meneceo,
Non si è mai troppo
giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A
qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'anima. Chi
sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla
conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse
dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è
passata l'età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci
dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani
quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della
felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per
prepararci a non temere l'avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le
cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo,
altrimenti tutto facciamo per averla.
Pratica e medita le cose
che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e
felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è
innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal
sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in
essa lo stato eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è
evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è
portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è
irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi
del popolo attribuisce alla divinità.
Tali giudizi, che non
ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false.
A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro
le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo
che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi
non è tale lo considerano estraneo. Poi abituati a pensare che la
morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il
soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la
sua assenza. L'esatta coscienza che la morte non significa nulla per
noi rende godibile la mortalità della vita, togliendo l'ingannevole
desiderio dell'immortalità.
Non esiste nulla di terribile
nella vita per chi davvero sappia che nulla c'è da temere nel non
vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della
morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in
quanto l'affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente
non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più
atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo
la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né
per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono
più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la
invoca come requie ai mali che vive.
Il vero saggio, come non gli
dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui
non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi
sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo
si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene
e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è
sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è l'arte del
ben vivere e del ben morire. Ancora peggio chi va dicendo: bello non
essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la porta dell' Ade.
Se è così convinto perché non
se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo
desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare
argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma
neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che
assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.
Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo
alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo
alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i
necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il
benessere fisico, altri per la stessa vita.
Una ferma conoscenza dei desideri
fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla
perfetta serenità dell'animo, perché questo è il compito della
vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di
allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia. Una volta raggiunto
questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo
vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare
per il bene dell'animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del
piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non
soffriamo non ne abbiamo bisogno.
Per questo noi riteniamo il
piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo
riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per
ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al
sentimento del piacere e del dolore. E' bene primario e naturale per
noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene
tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e
giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un
piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo.
Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li
scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti
sono sempre da fuggire.
Bisogna giudicare gli uni e gli
altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe
volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il
male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai
bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per
godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti
come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa
dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a
trovarsi, l'inutile è difficile.
I sapori semplici danno lo stesso
piacere dei più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il
piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non solo
porta salute e ci fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita
ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un'esistenza
ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso
gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il
piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come
credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo
interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo
a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi
i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e
tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza
della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o
rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per
l'animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e
bene supremo è la saggezza , perciò questa è anche più
apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre
virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza
che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva
di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da
questa inseparabili.
Chi suscita più ammirazione di
colui che ha un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei,
nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura,
che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili,
che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se
lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare ? Questo
genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone
di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per
necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La
necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro
arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o
lode.
Piuttosto che essere
schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti
degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le
preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità. La
fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la
divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di
consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male
determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l'avvio a
grandi beni o mali.
Però è meglio essere
senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è
preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia
successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste
cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai
sarai preda dell'ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non
sembra più nemmeno mortale l'uomo che vive fra beni immortali.
Una filosofía para la crisis
Epicuro funda el Jardín
en Atenas cuando la cultura griega se encuentra en declive respecto
de su época dorada. Por lo cual podríamos caracterizar a la
filosofía que allí se cultiva como una Filosofía de la Crisis. Esta
es una filosofía del
individuo, quien es el sujeto del placer y del dolor. Se trata de
liberar a este del sufrimiento para luego permitirle alcanzar el
placer. La misión de la filosofía según Epicuro será ante
todo terapéutica. Habrá que sanar la enfermedad del alma y enseñar
al ser humano a vivir el placer. Previamente será necesario
practicar una ascesis de los deseos para poder encontrar el
verdadero placer, evitando ciertos placeres en los que los hombres
encuentran la insatisfacción y el dolor (porque estos placeres son
insaciables). De lo que se trata es de potenciar el placer “en
reposo” que es un estado de equilibrio. El estado del cuerpo
sosegado y sin sufrimiento.
El
placer como supresión del sufrimiento es un placer absoluto. Gozar
de uno mismo y de su propia existencia. Esto implica un especial
estado de tranquilidad del alma y ausencia de perturbación.
En
realidad, el único placer verdadero es el simple placer de
existir. Toda la desdicha, toda la pena de los hombres, procede del
hecho de que ignoran el verdadero placer. Una fuente de gozo que está
al alcance de todos: “Gracias sean dadas a la Naturaleza que hizo
que las cosas necesarias sean fáciles de obtener y que las cosas
difíciles de alcanzar no sean necesarias”.
La felicidad consiste en
tomar conciencia de lo maravilloso que hay en la existencia. La
existencia considerada como puro azar, por eso debe ser vivida
totalmente y como una maravilla única. Hay que darse cuenta de que
la existencia -inexorablemente- no tiene lugar más que una vez por
tanto, hay que festejarla en lo que tiene de irremplazable y único. En el filosofar se
encuentra la felicidad, ya que surge de una actitud en cuyo acto
mismo de ejercerla está la felicida. Filosofar no es un
medio, es un fin en sí mismo. “En el ejercicio de la filosofía,
el placer va a la par con el conocimiento. Pues no se goza después
de haber aprendido, sino que al mismo tiempo se aprende y se goza”.
Al hilo de esto nos surge una pregunta ¿Qué significa actualmente el Jardín de Epicuro? Profundizar en esta
filosofía pueda darnos algunas pistas. La época de crisis tienen su
similitudes. Cuando se degradan y desmoronan los sistemas sociales
que cobijan a los individuos, solo estos por sí mismos pueden
emerger de la postración. La revolución de los individuos por sobre
las contradicciones de un sistema que instaura la desigualdad, la
pobreza, la dominación por parte de los poderosos - en definitiva-
la infelicidad.
Los seres humanos
individuales y concretos tenemos derecho de vivir nuestra existencia
en plenitud. Las personas estamos por sobre los sistemas. Una
sociedad de individuos libres emerge desde su fundamento: la
conciencia plena de que en la vida de cada uno -en el goce de la
existencia- está la felicidad y que esto nadie nos lo puede
arrebatar. Y mucho menos una abstracción perversa como son los
mercados y los estados guardianes al servicio de estos.
La revolución del
individuo no se sitúa al margen de la política, sino que desdeña
la actual organización política en la que priman lobbys de poder
(los partidos mayoritarios), que están al servicio del poder
económico que los subvencionan.
viernes, 25 de octubre de 2013
Sobre Epicuro (por Alejandro Villar)
Epicuro
intenta devolver la simetría a los seres del cosmos más allá de
otros universos conceptuales donde se instaura el antagonismo y la
diferencia jerárquica de lo múltiple. Crea una ámbito para la
igualdad entre los diferentes seres al pensar un cosmos donde existe
un mismo fundamento y misma meta para todos.
Uno de los
aspectos más bellos del pensamiento de Epicuro (y desde donde yo lo
interpreto) gira en torno a la duda que nuestro filósofo
acepta como principio de causalidad desde el cual el conocimiento
crítico se emancipa del mito. Es desde estaa perspectiva desde
donde Epicuro no buscará una verdad absoluta y señalará la
necedad de esta búsqueda de una explicación siempre imposible y
totalitaria a todo lo que acontece.
El hombre
será capaz de encontrar en la duda un apoyo para emanciparse de la
tiranía del Todo y obtendrá a cambio, una verdad fruto del
razonamiento crítico y plural. Una actitud crítica que permitirá
al ser humano rechazar como imposible una verdad absoluta -un saber
más allá de toda duda.
La duda es el
epicentro del conocimiento científico. Epicuro se nutre de la duda
para acercarnos a la realidad más posible sin aspirar a conocer la
realidad en su totalidad negando un fatum divino y arrebatando
a los hados la libertad al otorgándosela al ser-humano.
Negar la
posibilidad de una verdad absoluta no significa ningún tipo de
esquizofrenia en relación a un Yo incapaz de sentir la realidad,
sino que significa aceptar y disfrutar de lo que quizás acontezca o
de lo que quizás no llegue a ser, disfrutar de aquello a lo que
aquí y ahora no podemos todavía dotar de un
significado.
Las
enseñanzas de Epicuro se contextualizan en una paideia que
se aparta de la de sus predecesores y también de aquellos que siglos
después se erigirán como los nuevos sabios, sabios ya convertidos
en teólogos, donde el éxtasis y lo sublime ocupará el lugar que
dejará la reflexión crítica y plural.
Es en esta
paideia donde Epicuro renuncia a la poesía como arte para la
enseñanza.
La renuncia de
Epicuro a la poesía no es solo un argumento estético, sino que
considera que el lenguaje debe atenerse al sentido primero de las
palabras y desconfía de este arte donde las palabras se endulzan y
fácilmente inducen al error en su interpretación.
Pero yo opino
que la desconfianza de Epicuro hacia la poesía guarda un miedo aún
mayor y una advertencia de las consecuencias que supondría una
estetización de la filosofía. Hay lecciones que han de ser
enseñadas sin ningún adorno, al igual que para Epicuro también
había males que era mejor no evitar.
Epicuro es
consciente de la capacidad ontológica del lenguaje y por ello de la
vital importancia de nombrar bien. La palabra no es un agente neutro
, sino portadora de memoria y con capacidad para moldear la realidad,
tanto la que existió, como la que llegará a acontecer y también
aquella otra que simplemente es o fue posible.
Creo que
Epicuro quizás temía la utilidad que podía tener la percepción
sensorial del lenguaje emocional de la poesía. Con la poesía, y a
través de un lenguaje endulzado bien podía exponerse el ser
humano a una paideia donde la enseñanza moral no estuviera
influenciada de manera directa por la reflexión, sino por las
afecciones que surjan de palabras previamente escogidas con sumo
cuidado para que provoquen en nosotros una reacción determinada a
la espera de que surja una preconcebida postura moral. Postura moral
ya ajena a toda reflexión, dando lugar a una comunidad ética
donde la ley ya solo salvaguardará el orden establecido, una
comunidad ética donde lo plural queda marginado.
Esa comunidad
ética queda lejos del “estado de derecho” que existía en el
Jardin, donde el individuo tenía el derecho de ser libre y feliz,
lejos de destinos tiranos, lejos del antagónico Todo, un jardín
donde se disfruta la diferencia y la felicidad.
(Aportación de Alejandro Villar, miembro de nuestro grupo, para la reunión del próximo 26/10)
(Aportación de Alejandro Villar, miembro de nuestro grupo, para la reunión del próximo 26/10)
jueves, 24 de octubre de 2013
Una filosofía de la esperanza
El camino de la búsqueda
está marcado por la esperanza, pero es importante no confundir
esperanza con fantasía. La esperanza implica desear, tender hacia algo posible.
Si uno considera imposible alguna meta u objetivo jamás podrá alcanzarla. El
creer que nuestras metas pueden hacerse realidad son una componente fundamental
de su posibilidad. De ahí la importancia de desear lo posible o ver como
posible lo que se desea.Hay que plantearse metas posibles y a partir de ahí
luchar por ellas. Este es el camino de la esperanza.
No es lo mismo
tener esperanza respecto de uno mismo que en relación a los demás. Y esta
actitud abierta y esperanzada hacia los demás, solo puede surgir de un
sentimiento profundo de esperanza individual. Solo podemos creer en los demás
si creemos en nosotros mismos.
La esperanza como sentimiento
personal tiene que ver con los sentimientos de autoestima y confianza en
uno mismo. De ahí la importancia de fijarse metas posibles. Porque de este modo
cosecharemos resultados que a su vez aumentarán más nuestra estima. Plantearse
metas imposibles nos aboca al fracaso. Y plantearse continuamente este tipo de
metas nos llevaría a la frustración continua o, incluso, a la desolación. De
ahí la importancia de realizar una crítica de nuestra propia filosofía personal
y a partir de ahí construir una filosofía de la esperanza que nos oriente en la
consecución de nuestras metas y nos permita conseguir resultados y de ese modo, ser conscientes de que somos
capaces de perseguir fines posibles y realizables. Y en esto consiste, ni más
ni menos, el camino de la felicidad y esta es la
filosofía práctica que pretendemos y a la que os invitamos.
lunes, 21 de octubre de 2013
A propósito del texto de Michel Onfray (por Alberto Cerezo)
Comulgo con la mayoría de cosas del texto de Onfray pero no dejo
de tener a la vista ciertas ambigüedades que suscita. Creo que desde la buena
intención persigue el cambio pero lo presenta desde de un posicionamiento
previo. Lo cierto es tengo que leer todo el libro porque invita a abrir nuevas
vías y esto me emociona. En el texto que te mando creo que se deja entrever
todo esto.
Ante el fracaso de los valores de la sociedad occidental
(de herencia griega) cuya huella queda ilustrada en las guerras mundiales, el
nazismo, la barbarie nuclear y los actuales fundamentalismos, a falta de una
ética que se adapte a la sociedad o de una sociedad que se adapte a una ética,
se hace necesaria la revisión de una subjetividad creadora y crítica que en
positivo posibilite, aunque aún no garantice, una comunidad si no plenamente
feliz sí al menos estable. Extiendo las palabras de Onfray más allá de lo que
quizás él hubiera hecho cuando trata el tema de una comunidad filosófica
centrada en la filosofía y alternativa al sistema educativo, a costa de su
sugerencia sobre el horizonte social. Onfray invita a recrear un hedonismo
nómada, portable, por tanto, idealizable y de índole imaginario pero con
afección a lo real y cotidiano. Quizás en esta ruptura se halle la dificultad
compleja de trasladar el universo ideal a la cotidianeidad del día a día. La
posibilidad de convertir la utopía personal en proyecto visible y real. La
realización del sujeto que en su actividad acaba con su ruptura. Se hace
necesario entender que nunca fuimos agregados del mundo, algo externo a él, sino
seres en el mundo (Merleau-ponty, Husserl). Tampoco fuimos ni debimos ser
objetos ni para el poder ni para el Otro. Si no pertenecemos al mundo sino que
somos en el mundo, creo que la posibilidad debe pasar por un sujeto que se
presente en actividad, es decir, como ‘realizando mundo’ desde su propia vida,
aspecto creador incluso en relación con el ámbito estético. Las consecuencias
de desplegar un modelo de vida vienen sugeridas por las palabras de Onfray: el
caballo de Troya, se efectúa desde la violencia crítica de presentar una forma
de vida no habitual, no acostumbrada, alternativa a una sociedad estática,
(también violencia para el propio sujeto que la emprende como cambio por
primera vez). Cualquier cambio provoca una profanación en la estabilidad social,
y por tanto cualquier cambio será sojuzgado previamente como pertinente o
insolente. Es lo que acontece al individuo que se aparta de la polis, que elige
el autocastigo pero cuya singularidad grita desde su modo de vida, desde su
acto no encasillable. Mientras la república utilitarista, liberal, se ciñe al
hecho de construir futuro colectivo, de construir sociedad, estructura
jerarquizada, el individuo queda abandonado en lo abstracto; no se cuestiona
sobre esta clase de sujeto prescindible e intercambiable. El jardín, agrupación
local, ámbito de construcción de uno mismo, presenta a un individuo como parte
imprescindible, formador de comunidad y de mundo. Universo inexplicable en su
ausencia, se configura como fundamento de la edificación del grupo. Comunidad
inextinguible que forzosamente requiere del sujeto y donde el sujeto es razón
de ser, ya que el problema no es lo social ni el Otro sino la forma, la
compartición de un mismo imaginario. Otra cuestión habla sobre el voluntarismo
y sobre contrato; contrato de validez por serlo, por ser sinalagmático, por
acogerse de esta manera y dependiente de la perspectiva del que examina la
cuestión, ¿qué clase de contrato es mejor? Sin duda el elegido por uno mismo.
¿Es extensible la comunidad a toda una sociedad? ¿El Sistema tal y como lo
conocemos garantizamos que realmente es irrecuperable? De darse el cambio en
uno mismo quizás sirva para evitar el horror y el fracaso de la civilización
europea, explicaría Habermas. Hablamos de la amistad y el diálogo. El consenso
frente a la intolerancia de la incomunicación que se produce en el espacio
geométrico y homogéneo donde el Otro es no referencial, no identificado y que
me convierte a mí mismo en otro eje indeterminado, no central. Es necesaria una
centralización referencial en un mundo ordenado donde cada uno, punto central
de ese mundo, pueda orientarse a múltiples direcciones, donde se produzca la
compresión de mí mismo sin otra posibilidad de ser sino es en el Otro. Si el
sujeto es en el mundo es al mismo tiempo creador de éste. Por eso cualquier
cambio originado desde el sujeto puede afectar al resto de cosas en las que se
rodea de manera transformadora, a veces provocado a veces inconsciente. De esto
trata el film Atlas de las nubes donde las transformaciones no se dan solo en
el espacio sino a través del tiempo en una especie de causalidad donde
incongruentemente el azar parece desembocar en un determinismo, de nuevo el
individuo afectado por el círculo hermenéutico. El jardín lo que sí garantiza
es que se comparte la finalidad de la misma búsqueda por todos sus integrantes.
No garantiza el consenso, solo la empatía de un mismo fin y el fin perfila un
sujeto quizás también alienado en la consecución del hedonismo. El matiz en
cuestión quizás estribe en la elección personal del sujeto que entrega su parte
como bien para el otro y espera esta misma reciprocidad del otro también.
Elevar ese encuentro desde la amistad puede generar nuevos valores superiores.
¿Cuánta alegría debo ver en el otro para que mi alegría pueda ser alegría
plena? ¿cuánto desagrado debo suprimir? ¿es suficientemente amortiguador
desviar la mirada de lo feo, de lo sufriente? ¿qué tipo de hombre es ese
desconocido hombre sin sufrimiento? Son preguntas que quizás solo puedan
responderse ‘haciendo’, en la praxis de una nueva sociedad propuesta. Quizás
más allá de la comunidad podamos trasladar el concepto de clase marxista, la
revolucionaria asociación capaz de originar el cambio, donde clase ya no se
definiera por su particularidad económica social sino por aspectos críticos e
inalienables de la persona que se ve reflejada en otra clase de valores.
Estimada lección que aprendimos sobre la revolución que quiso convertirse en
Estado sin especificar más detalles sobre el mantenimiento de éste mismo, proyecto
del que no supimos hacernos cargo; un nuevo tipo de jardín como aspiración dice
Onfray, cambiar el sistema y así bajo el estandarte de uno nuevo y por tanto de
un nuevo sujeto, provocar la ruptura con el ser heredado, según dirían
Nietzsche o Heidegger cada uno desde su perspectiva. Pero la meta vale la pena,
intentar lograr esta satisfacción suprema: el puro placer de existir, del ser
conduciéndose a lo que es su propia tendencia: persistir; ser capaz de llevar
una vida fuerte, dirían los nativos americanos, una vida que merece la pena ser
vivida…
Alberto Cerezo
sábado, 19 de octubre de 2013
Michel Onfray (bibliografía)
A petición de algunos amigos y seguidores publico un enlace a la bibliografía de este autor.
.http://mo.michelonfray.fr/category/oeuvres/bibliographie/
Muchos de sus libros están tarducidos al castellano.
.http://mo.michelonfray.fr/category/oeuvres/bibliographie/
Muchos de sus libros están tarducidos al castellano.
jueves, 17 de octubre de 2013
Nacimiento de la Filosofía (2)
Ciudades griegas del Tirreno y del Jonio en las que se desarrolló la epistéme de los físicos en los siglos VI y V a. C.
domingo, 13 de octubre de 2013
Textos de M. Onfray
En este enlace encontrarás los textos que comentaremos en la próxima reunión de nuestra comunidad filosófica del sábado 26 de octubre.
http://grupofilosofiayterapia.blogspot.com.es/
http://grupofilosofiayterapia.blogspot.com.es/
jueves, 3 de octubre de 2013
América Latina: utopía y realidad.
En el año 2000, en la Universidad Nacional Autónoma de Sonora (Hermosillo, México) presenté un trabajo titulado América Latina: utopía y realidad, cuyas conclusiones considero oportuno publicarlas aquí,ya que pueden dar lugar a debate -que es lo que este espacio pretende suscitar- :
Si
partimos de las bases históricas del origen y fundación de América
Latina, claves fundamentales para poder pensar sobre la cuestión que
nos ocupa, no podemos menos que manifestar una gran perplejidad por
los resultados históricos habidos en virtud de tan magna empresa.
¿Cómo
es posible que América Latina se encuentre en la situación actual
si la comparamos con la realidad presente de la América
anglosajona?
¿La
situación de postración en la que viven los pueblos de América
Latina nos deben llevar a la conclusión de que nuestro proyecto
histórico ha fracasado y que debemos plegarnos sin más al proyecto
del Norte?
¿Esto
significa que la utopía fundacional no fue sino una quimera, una
suerte de fábula macabra que nos condenó al infortunio de la
pobreza, la dependencia y la dominación?
Para
responder a estas cuestiones debemos contextualizarlas en la actual
coyuntura geopolítica de esta parte del planeta.
Existen
dos Américas: la de raíces mediterráneas, América Latina y la de
raíces anglosajonas, Estados Unidos y Canadá, junto al enclave
francófono de Québec.
Tampoco
América Latina es homogénea. Existe el Cono Sur, con población
mayoritariamente europea, poca presencia del indígena y escaso
mestizaje y el resto de América Latina, mayoritariamente mestiza e
indígena, sin olvidar la fuerte presencia afroamericana en algunos
países.
Pero
América Latina posee algunas características que se dan de manera
constante en todos los países que la componen. En mayor o menos
escala, podemos afirmar que nuestros males endémicos son: la
pobreza, el retraso tecnológico, la escasa implantación de la
democracia, la dependencia de los países ricos y la corrupción
política y de las instituciones del estado. Todo esto agravado por
un aumento de la delincuencia organizada y por tanto de la
inseguridad ciudadana.
En
lo que parecía el continente del futuro también se ha dado la voz
de alarma sobre los graves deterioros que está sufriendo nuestro
entorno ecológico: la capa de ozono, la deforestación, el cambio
climático, la contaminación de las megápolis, de los ríos y los
mares, la adulteración de alimentos...
Obviamente, la
solución es política. Pero ¿cómo es posible emerger de la
postración y el desencanto? La desconfianza en una clase política
corrupta y totalmente ajena a los intereses de los ciudadanos es
generalizada. No existen opciones y propuestas políticas capaces de
ilusionar a los jóvenes, ni a los menos jóvenes. Descartando y
abominando de las diversas reediciones del fascismo, con múltiples
versiones populistas y de las pseudo renovadas derechas
neofascistas, nos quedarían algunos proyectos más o menos
homologables con el socialismo democrático europeo, que por otra
parte, tampoco es la panacea, ya que en algunos casos también ha
aparecido el estigma de la corrupción.
Hace
algunas décadas existió un proyecto coherente y generalizado de
liberación de nuestro continente. Un auténtico proyecto
revolucionario liderado por la filosofía política de Ernesto
Guevara, pero como todos sabemos, este proyecto fue sofocado. Y en
los términos bélicos que se planteó estaba el germen de su
fracaso. Es verdad que a veces existe la tentación de defender la
violencia como único medio de arrebatar el poder a los que nos
dominan y gobiernan en contra de los intereses del pueblo, pero ya se
ha demostrado la ineficacia política de este tipo de procedimientos,
aún cuando pudieran justificarse como respuesta justa a la violencia
institucionalizada.
Pero
también se extiende la sombra de la duda sobre la posibilidad del
acceso al poder político de opciones progresistas y populares. No
olvidemos la lección histórica del derrocamiento de Salvador
Allende, cuyo proyecto político es plenamente vigente en la actual
encrucijada. Como él mismo dijo: “Conocemos bien el drama de
América del Sur, que siendo un continente potencialmente rico, es un
continente pobre, fundamentalmente por la explotación de que es
víctima por parte del capital privado norteamericano..Nosotros
luchamos fundamentalmente por la integración de los países
latinoamericanos. Creemos que es justo el camino indicado por los
padres de la patria, que soñaron la unidad latinoamericana para
poder disponer de una voz continental frente al mundo”. He aquí
una de las claves para continuar creando nuestra identidad política
y evolucionar hacia el tipo de sociedad que nuestros pueblos se
merecen. Éste es todo un reto en el siglo que se inicia. La unidad
política latinoamericana, la unión de una comunidad de 500 millones
de seres humanos con una lengua común y con una misma filosofía de
la vida significará en las próximas décadas una aportación
fundamental a la nueva sociedad planetaria que se está forjando. Uno
de los peligros de la globalización es precisamente, entre otros, el
de la pérdida de la identidad histórica y cultural de los pueblos
más pobres y más colonizados. Globalización no puede ni debe ser
sinónimo de dilución en el modo de vida del país imperialista del
norte.
No
deberíamos integrarnos acríticamente en un modelo de civilización
ya agotado. Atisbar salidas y soluciones en el oscuro horizonte
inmediato es tarea fundamental que debe ocupar nuestra reflexión y
nuestra praxis. Y en esta encrucijada de la humanidad, América
Latina tiene algo que decir y algo que hacer.
Si
es importante en la actual coyuntura geopolítica, que, con todas las
deficiencias y desaciertos, haya nacido la Unión Europea, como
relativo factor de equilibrio y contrapunto a la todopoderosa Unión
Americana del norte, la relevancia histórica, cultural, ética y
política de la deseada unión latinoamericana será un factor
decisivo en la construcción de la sociedad futura del planeta.
En
cualquier caso, la construcción de nuestra nueva sociedad justa y
solidaria no podrá hacerse sobre las bases de las actuales prácticas
políticas, que reproducen lo peor del perimido sistema de las
democracias capitalistas del occidente rico.
La
causa de la pobreza y del creciente empobrecimiento de nuestras
gentes, está en la injusta distribución de la riqueza, la
corrupción y la explotación inmoral de los trabajadores y en última
instancia del desarrollo de la cara más inhumana del sistema
capitalista. El capitalismo sustenta la llamada sociedad del
bienestar en Europa y América anglosajona, pero se nutre del expolio
de los países dependientes, algunos de los cuales ya se encuentran
postrados en la extrema pobreza (muchos de ellos en África, pero ya
tenemos algunos ejemplos en nuestro continente: Haití, Bolivia,
Paraguay...)
En
definitiva, y dada la imposibilidad material de extendernos más,
nuestro reto histórico en el siglo que se inicia, es la solución de
la lacra de la pobreza y de la enfermedad, del analfabetismo, del
racismo, de la explotación y sumisión de la mujer, de la ecología
y de la solución política.
Éstos
no son sólo problemas de América Latina, pero nosotros debemos
hacernos cargo de ellos y resolverlos según nuestra propia
filosofía. Pensar y realizar nuestro propio ser americano.
El
siglo que se inicia, será el siglo de los movimientos migratorios
masivos. En Europa del Este, África y América Latina la miseria
empuja a millones de personas a intentar vivir en el mundo rico. El
dilema es la vida o la muerte. Prefieren arriesgar la vida (y muchos
la pierden en el intento) en el estrecho de Gilbraltar o en el
desierto de Arizona que morir de hambre en los países que los vieron
nacer.
Los
pobres de la tierra asaltarán la dorada sociedad del bienestar del
norte, que paradójicamente, por ejemplo en el caso de la Europa
unida necesita actualmente 5 millones de inmigrantes para mantener su
sistema productivo.
Con
el fin de la guerra fría se echaron las campanas al vuelo respecto
de la conjuración del fantasma de una conflagración universal, pero
si nos autocomplacemos en el actual sistema ético (o mejor,
antiético), político y económico que impone el gran gendarme de la
humanidad que es Estados Unidos, el desastre está servido. Pero nos
resistimos a aceptar la premonición del fin de la historia y
apostamos por el futuro de la humanidad. Desde nuestra realidad
latinoamericana y europea mediterránea tenemos mucho que pensar,
expresar y actuar.
No
queremos terminar sin hacer mención a la lengua, factor fundamental
de unión y desarrollo. El castellano/español es la segunda lengua
indoeuropea en el mundo con más de 500 millones de hablantes que la
poseen como lengua materna y en pocos años será la primera si
atendemos al ritmo de crecimiento demográfico de nuestros países.
Debemos
por tanto, evitar su deterioro y seguir trabajando por su
homogenización conservando la riqueza de las variedades regionales.
Es necesario alertar sobre la desnaturalización que se da en algunos
países fuertemente colonizados, no sólo económicamente, sino
culturalmente. Una cosa es aprender el inglés y otras lenguas con
valor instrumental y otra es sentir complejo de inferioridad respecto
de nuestra propia lengua. En algunos países de América Latina se
llega al extremo de que en las familias de alto nivel económico se
habla el inglés como signo de distinción en un efecto mimético con
Estados Unidos. La contaminación lingüística es alarmante, tanto
en el léxico como en la sintaxis.
No
olvidemos que con la incesante penetración de americanismos no sólo
desvirtuamos nuestra propia lengua sino que además se nos filtra su
contenido. Y eso implica adoptar modos y estilos que no son nuestros
y que dependen de otra filosofía de vida muy ajena a a nosotros. El
lenguaje es un factor de colonización cultural de primer orden, pero
también puede desempeñar un papel liberador. Defender nuestra
lengua resulta clave en la consolidación de nuestro propio ser
americano.
Y
precisamente con esta referencia al primordial valor transformador
del lenguaje, podemos concluir con unas palabras de Gabriel
García Márquez: “Ante esta realidad sobrecogedora que a través
del tiempo debió parecer una utopía, los inventores de fábulas que
todo lo creemos, nos sentimos con el derecho de creer que todavía no
es demasiado tarde para emprender la creación de la utopía
contraria. Una nueva y arrasadora utopía de la vida donde nadie
pueda decidir por nosotros ni la forma de vivir ni la forma de morir,
donde de veras sea posible la felicidad y donde las estirpes
condenadas a cien años de soledad tengan por fin y para siempre una
segunda oportunidad sobre la tierra.”
© E. Agüero Mackern
martes, 1 de octubre de 2013
Textos para la reunión del 26/10/2013
Acabo de publicar en Isegoría unos fragmentos de Epicuro. Comentaremos estos textos en la próxima reunión del sábado 26 de octubre.
Próximamente publicaré un texto contemporáneo.
Tal como habíamos quedado, en cada reunión habrá dos partes: en la primera comentaremos un texto clásico (pre-kantiano) y en la segunda, uno contemporáneo (post-kantiano) o de actualidad (siempre de carácter filosófico).
Próximamente publicaré un texto contemporáneo.
Tal como habíamos quedado, en cada reunión habrá dos partes: en la primera comentaremos un texto clásico (pre-kantiano) y en la segunda, uno contemporáneo (post-kantiano) o de actualidad (siempre de carácter filosófico).
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